Categoria: FAMIGLIA

Mi sono sposato nel 2009 e dopo pochi mesi eravamo già in crisi. Dopo il matrimonio mia moglie è cambiata moltissimo e le tensioni erano all’ordine del giorno soprattutto per stupidaggini. Non scherzo se le dico che litigavamo anche per come piegavo i calzoni alla sera. Era diventata insopportabile. Se non chè all’inizio di quest’anno ho deciso di andarmene dalla casa in cui vivevamo che è di sua proprietà e mi sono trasferito dai miei genitori. E ho ricominciato a respirare! Dopo qualche giorno però si è scatenato un pandemonio. Mia moglie mi ha accusato di aver abbanadonato il tetto coniugale e il suo avvocato dice che chiederà la separazione per colpa e il risarcimento dei danni che mia moglie avrebbe subito a causa mia. Io mi sono subito consultato con mio cugino che è avvocato e ora lui sta cercando di trattare con l’avvocato di mia moglie per evitare la causa. Però sono molto preoccupato. Lei cosa ne pensa?

Penso che lei abbia fatto bene ad abbandonare il tetto coniugale. La nostra giurisprudenza ritiene che non vi sia violazione dei doveri derivanti dal matromonio (come la coabitazione) laddove la relazione sia già irrimediabilmente compromessa. Quest’anno la Suprema Corte si è pronunciata su un caso di addebito (Cassazione civile , sez. I, sentenza 30.01.2013 n° 2183) che ho trovato molto interessante. Una moglie, stanca della convivenza matrimoniale, ha abbandonato il marito lasciando in casa soltanto una lettera d’addio. Il marito non l’ha presa bene e ha chiesto che fosse pronunciato l’addebito della separazione a carico della moglie. Approdata alla Cassazione, la domanda di addebito del marito è stata definitivamente respinta proprio perchè la scelta della donna era conseguita al progressivo deterioramento dell’unione coniugale rendendo intollerabile la convivenza. E la lettera, tanto stigmatizzata dal marito, è stata invece processualmente riabilitata perchè(inserita in un contesto di disgregazione della comunione spirituale e materiale della coppia), ha inequivocabilmente provato lo stato di incomunicabilità tra marito e moglie nonchè la frattura in atto tra i due. Quindi, ritengo (anche da quel poco che lei mi ha scritto) che nel suo caso suo cugino dovrà tenere duro e spiegare alla controparte che non ci sono i presupposti per l’addebito. Quanto al paventato risarcimento del danno…non se ne parla neanche.

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Paolo Cendon ha scritto un libro su una storia vera. Si tratta di un caso di violenza sessuale su una bambina. L’imputato è un prete, circostanza che rende ancor più drammatica la vicenda. Si riesce a percepire ogni sofferenza che il piccolo corpo di Anna è costretto a subire. Una telecamera sulla scena degli abusi trasmette tutte le emozioni, le paure, il disagio, il disgusto, gli odori nauseanti. La commistione tra sacro e profano rende l’abuso ancora più inaccettabile. Il percorso di fede è un potente strumento di coercizione della volontà della vittima e diventa il viatico per confermare la “bontà” delle violenze che il prete inferte alla bambina. Don Fulvio, questo è il suo nome, annienta tutti i sogni e la spensieratezza della piccola Anna che avrebbe invece dovuto diventare grande senza quei traumi di segreto dolore che è stata costretta a subire. Il libro è anche la denuncia della complicità omertosa di quanti per interesse o per paura consigliano alla piccola Anna di dimenticare quanto è accaduto; don Crispino, il parroco del paese troppo interessato al buon nome della parrocchia e la signora Arneri, la maestra di religione legata a lui sentimentalmente. Che vergogna!! Ed è una storia vera…. Gli abusi diventano negli anni sempre più violenti e don Fulvio finisce per coinvolgere nel crimine un coetaneo di Anna, Rocco, abusato e abusante al tempo stesso in quella commistione di ruoli che troppo spesso si verifica in casi del genere.

La mente di Anna obbedisce ancora una volta all’esercizio dell’insano potere spirituale che le è stato impartito, cancellando per lungo tempo ogni traccia di quegli abusi fino a quando all’età di venti anni comincia una estenuante terapia psicologica che le consentirà il recupero progressivo della memoria. Seguirà la denuncia in questura, l’apertura di un’istruttoria e un lungo e faticoso processo. Inizialmente i Giudici non credono al racconto di Anna ma poi in secondo grado il sacerdote viene finalmente condannato e con lui anche la Chiesa locale. Una figura centrale nel percorso di risalita verso la vita della giovane donna è il suo professore di diritto con il quale deciderà di scrivere un memoriale a quattro mani affinché la denunzia del dolore e dei soprusi possa fare entrare finalmente la luce nella sua vita. Alla fine ha vinto lei. Anna ha potuto ricominciare una nuova vita libera e liberata dal marcio dell’abuso mentre gli altri ne pagano le conseguenze. Don Fulvio invece di andare in galera viene spostato in un’altra parrocchia (poveri fedeli!!). Don Crispino pure. La maestra Arneri non esercita più. E Rocco rimane un infelice.

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I Giudici hanno stabilito che la relazione omosessuale della donna non ha rappresentato una grave violazione dei doveri coniugali nei confronti del marito. Queste le ragioni in breve:

– il tradimento omosex è stata causa ultima (la c.d. “goccia che fa traboccare il vaso”) e non la causa scatenante della rottura matrimoniale. Non è stata ravvisata alcuna “colpa” della moglie (cioè coscienza e volontà), nell’infrangere i doveri del matrimonio. Come emerso dalla relazione del consulente tecnico d’ufficio, la nuova relazione si era innestata su una più articolata crisi matrimoniale nata da non risolte dinamiche intrapsichiche di ciascuno dei coniugi;

– le modalità del tradimento non sono state oggettivamente irrispettose nei confronti del marito. La moglie, infatti, ha vissuto la relazione all’interno della nuova coppia senza pubblico coming out e quindi senza ledere la reputazione sociale del marito.

Questa sentenza parifica, quindi, il tradimento omosessuale a quello eterosessuale.

Nessuna discriminazione viene fatta nemmeno per quanto riguarda il collocamento dei figli presso la madre, ritenuto non pregiudizievole per la prole.

In ogni caso, allo scopo di tutelare le minori sul piano affettivo, il Tribunale ha ritenuto opportuno imporre alla madre (assolutamente libera di continuare la propria relazione) di evitare la frequentazione tra le figlie e la nuova partner, non ravvisando in quest’ultima una sicura figura di riferimento accuditivo ed educativo.

E infine, per via della “non risolta rigidità del padre ad affrontare la relazione della moglie” e delle “difficoltà di quest’ultima di ‘fare chiarezza’ con le figlie circa il suo rapporto con la signora …” è stata comunque demandata ai Servizi Sociali un’attività di monitoraggio sulle minorenni e la predisposizione di un percorso di sostegno volto (anche) ad individuare tempi e modalità per consentire ai genitori “di ‘preparare’ le figlie alla nuova situazione, affettiva e di coppia, della madre”.

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Ho letto l’articolo di Marco Galluzzo e sono rimasta senza parole.
Ma com’è possibile che sia successo davvero?
Il caso: pare (mi riservo il beneficio del dubbio) che ci sia stata, da un lato, una moglie spendacciona ma solo per cose proprie (vestiti, profumi e così via) e, dall’altro, un marito “tolllerante” che ha sempre dovuto vicariare la moglie nella gestione del frigo di casa finchè, a un certo punto, il marito ha deciso che quel ruolo gli stava scomodo e che soprattutto aveva definitivamente compromesso la relazione coniugale. Giungendo così alla separazione dove il Tribunale di Roma ha dichiarato l’addebito a carico della moglie (in gergo colloquiale: separazione per colpa) egoista e spendacciona.
Una nota tecnica si rende necessaria per sviluppare un pensiero.
Se viene pronunciato l’addebito, il coniuge che la subisce perde: (a) il diritto di percepire un contributo al proprio mantenimento e (b) anche i diritti ereditari verso l’altro coniuge.
La pronuncia di addebito si fonda sulla violazione dei doveri che l’articolo 143 del c.c. pone a carico dei coniugi (v. art.143: “Diritti e doveri reciproci dei coniugi. Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia.”).
Ovviamente nel procedimento di separazione giudiziale dovrà essere accertato che quella violazione ha assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale.
Nel caso specifico, quindi, da quanto si legge nell’articolo, potremmo supporre che la reiterata mancata assistenza nella gestione della famiglia da parte della donna abbia rappresentato una violazione particolarmente grave dei doveri coniugali che ha determinato l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza e che è stata causativa della separazione personale di questi coniugi.
Ma stiamo scherzando?
Devo premettere un elemento importantissimo: non ho letto la decisione del Tribunale di Roma, quindi, mi baso (e faccio affidamento) solo sull’articolo del corriere on line. Cercherò comunque la sentenza in rete e poi sicuramente integrerò o farò seguito a questo articolo.
Quindi dicevo: ma stiamo scherzando?
Non posso credere che il Tribunale di Roma abbia addebitato la separazione a una moglie perchè “rea” di aver liquefatto la carta di credito con acquisti frivoli ed esclusivamente per sè mancando, parallelamente, al proprio dovere di svolgere i compiti familiari.
Mi viene in mente una canzone: “Per la tua piccolina / non compri mai balocchi / Mamma, tu compri soltanto profumi per te!”.
Tanti (troppi) sono i miei dubbi.
Perchè il marito faceva sempre la spesa da solo?
Perchè la moglie non ne aveva voglia?
Mi pare talmente strano che faccio fatica a crederci ma non si sa mai, tutto può essere.
A questa stregua potrebbe anche essere che la spesa la facesse il marito perchè gli piace fare la spesa.
Mi chiedo anche se andasse solo in rosticceria (che è l’unico negozio dove l’uomo non protesta) o anche al supermercato.
Tant’è.
Andiamo avanti.
La spesa è convenzionalmente un incombente femminile: non è che, per caso, questo marito avesse deciso di ricompensare l’usurpazione del ruolo permettendo alla moglie lo sfogo di tutti i suoi capricci?
Ad ognuno il proprio capriccio e alla sera tutti felici con i bambini. Forse queste licenze facevano proprio parte dell’equilibrio della coppia, penso io.
Però, poi, quando le cose vanno male tutto si interpreta diversamente e ci si rinfaccia anche quello che un tempo si approvava.
Le mie sono naturalmente riflessioni provocatorie, è ovvio.
Solo quando avrò letto la sentenza del Tribunale potrò fare delle considerazioni puntuali.
Mi viene comunque un dubbio.
Non è che la circostanza della “spesa” e della carta di credito sia stata strumentalmente elaborata da avvocati in gamba fino a stravolgere la realtà dei fatti rappresentati da una interpretazione della dinamica relazionale della coppia fuorviante ma d’effetto?
Battute a parte, aspettiamo di leggere la decisione, poi ne riparliamo.

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